Milano, stazione Centrale, sabato 13 giugno, ore 22. Scendo dal treno. Ritorno dall’incontro appena vissuto a Roma con papa Francesco e con gli altri centomila scout provenienti da tutta Italia, una giornata che mi ha davvero riempito il cuore. Nell’atrio della Stazione Centrale di Milano non posso fare a meno di notare che lo spazio dove poco più di 24 ore fa avevo visto ciò che i media hanno chiamato “centro momentaneo per i profughi” ora delle transenne delimitano un perimetro vuoto, simbolo di qualcosa che c’era e la cui pesante presenza aleggia ancora nell’aria.
Fatico a credere che centinaia di uomini e di donne siano stati trasportati via con facilità dall’oggi al domani, letteralmente. Infatti mi basta fare una rampa di scale in più e vedo che i profughi in questione sono solo stati trasportati qualche metro più in là, al confine con piazza Duca D’Aosta perchè “i passeggeri della stazione hanno paura della scabbia; così la malattia pensano che non li tocchi. Invece va direttamente in città”. Me lo spiegherà pochi minuti dopo Mohamed, marocchino, da così tanti anni a Milano da essersi guadagnato l’appellativo de “il Sindaco”.
Vedo una giovane mamma africana intenta a vestire il proprio figlio, fra peluche e spazzatura, tra decine di uomini delle forze armate, volontari di associazioni umanitarie, uomini in giacca e cravatta che sbraitano per la situazione e semplici passanti curiosi.
L’emergenza umanitaria, perchè di umani si tratta, della Stazione Centrale di Milano esiste ancora.
Mentre seguo curiosa la traiettoria della macchinina dell’altro figlio, un tipetto tutto riccioli che ha sì o no l’età della prima pipì nel vasino, sento una voce che mi chiama. E’ Franco, napoletano, orgogliosamente da 15 anni per le strade milanesi (“ci trattano benissimo, aria condizionata e donna delle pulizie”, scherza indicandomi un hotel a pochi metri di distanza). Probabilmente attratto dall’azzurro vivace della mia camicia o dalla mia aria razionalmente spaesata ha proprio voglia di dirmi la sua.
Franco e Mohamed mi spiegano che questi signori – i profughi, di cui evitano la compagnia (probabilmente a causa di una gerarchia sociale a me ignota) – puntano essenzialmente verso tre città: Parigi, Monaco e – ahimè – Ventimiglia. “Ma poi noi italiani siamo imbranati, non sappiamo dirgli di no”.
Polemiche, accuse ed attriti si placano nel momento in cui gli racconto da dove proviene il treno che mi ha portato questa sera lì a chiacchierare con loro: i loro occhi si illuminano (più di quanto poco prima è successo alla vista di una bottiglia di vino) quando faccio il nome di Papa Francesco. “E’ un pezzo di pane”, mi sento dire, “sono musulmano e gli voglio bene”. Mi vengono i brividi allora a pensare alle parole del Papa di questa mattina: non possono essere più attuali nell’invito a “creare ponti e non muri”.
di Cinzia Campogiani
Foto di copertina: Una famiglia di profughi davanti a Stazione Centrale, a Milano, sabato 13 giugno 2015 – credit: Cinzia Campogiani