In una lettera pubblicata martedì 5 agosto sul quotidiano La Stampa, Pupi Avati parla della sua esperienza nello scautismo: dal dopoguerra, quando i gruppi scout vivevano di rendita grazie alle tende e alle scatolette lasciate dagli americani, alla fine degli anni Cinquanta.
Certo l’Italia non è più quella del dopoguerra, ma molte delle esperienze che oggi vivono i ragazzi scout sono le stesse che hanno caratterizzato la formazione del regista bolognese: “i ‘fuochi di bivacco’ erano momenti di socializzazione. Che potevano essere scherzosi, allegri, con scenette e barzellette. Ma anche molto seri: momenti in cui ci si confrontava, ci si raccontava, ci si confidava, sapendo che nessuno avrebbe mai fatto uso di dileggio di quel che sentiva. Se sono una persona che ha una certa facilità a raccontare se stesso senza nascondere le proprie debolezze e i propri errori, lo devo a quei momenti lì, ai ‘fuochi di bivacco’”.
Anche per i bambini di otto-dieci anni di oggi, i lupetti e le coccinelle dei branchi e dei cerchi d’Italia, stare negli scout è un “grande, incredibile gioco, e un bambino non può desiderare di meglio”. Sono sempre parole di Pupi Avati, che ricorda con riconoscenza le esperienze fatte da ragazzo negli scout: un tempo diverso da quello che la famiglia e la scuola possono offrire; momenti privilegiati per stare con i coetanei e allo stesso tempo confrontarsi con ragazzi più grandi, in cui maturano amicizie vere.
Gli scout, conclude Avati, “mi hanno insegnato soprattutto due cose. La prima è che bisogna dare un senso a ogni nostra giornata. La seconda è la sacralità della vita, in un tutt’uno con la sacralità della natura.
Due lezioni di vita che – scommettiamo – anche i 30.000 rover che stanno prendendo parte alla Route nazionale impareranno.
Elisa Carraro