Dal 17 al 19 marzo scorso, si è tenuto a Taranto, nelle vicinanze dell’ILVA, il laboratorio su “Lavoro e Ambiente” organizzato dalla Pattuglia regionale R/S della Puglia. Il tema del lavoro è stato legato a quello ambientale per permettere ai ragazzi di contestualizzare la loro esperienza su di una problematica concreta.
Il testo che condividiamo è opera di uno dei rover che hanno partecipato al laboratorio e mostra quanto sia viva nei nostri r/s la consapevolezza delle difficoltà che vivono sul proprio territorio e di quanto ci sia da fare per generare nuove idee e possibilità anche attraverso il lavoro.
“Ti alzi dal letto, discosti le tende dalla finestra, apri leggermente le imposte. Un greve alito di vento penetra languido nella stanza, non la brezza marina che hai sognato questa notte. Di fronte a te non vedi il mare blu, ma tu sai che c’è, celato da quella siepe che in realtà è una grande fabbrica scura, con quei fusti alti alti che svettano nel cielo e che a te sono sempre sembrati cannoni pronti a sparare contro Dio.
Mentre pensi e osservi in silenzio il desolato spettacolo uno di questi cannoni spara un colpo ferale, mortifero, esiziale. Lo sbuffo bianco serpeggia al di sopra del cannone nel cielo albeggiante venato di rosa e d’arancio, si snoda viscido e si attorciglia rapido su se stesso, striscia su, in alto, avido di quell’immensità, e vorrebbe possederla tutta per sé. Va un po’ di qua e un po’ di là, e così facendo si perde nell’infinito, succube della sua smaniosa tracotanza.
Ma non scompare senza lasciare un ricordo, un funereo dono di commiato: prima vuole recapitare un po’ di morte a tutti quelli che, immobili, l’hanno ammirato. In fondo, se lo meritano, non l’hanno aiutato ad impossessarsi dell’immensità, non sono stati suoi complici spietati di quell’assurda pretesa.
Anche Dio, lassù, muore un po’, e muori pure un po’ tu, dentro di te, e muoiono tutti, ai Tamburi.
Accosti la finestra e ruoti la maniglia, richiudi su loro stesse le tende e srotoli veloce la tapparella rumorosa fino ad oscurare quasi completamente la stanza. Tua moglie viene svegliata dal sordo stridio della serranda, tu ti avvicini a lei e la baci sulla fronte.
Nel giro di pochi minuti, bevi il caffè, ti lavi, ti radi la barba e indossi la tuta da lavoro. La saluti e le chiedi di portare il tuo buongiorno anche al vostro bambino, che sta ancora dormendo. Lei assente, con un movimento verticale della testa, quasi impercettibile, e con un sorriso amaro sulle labbra “Ci vediamo stasera”, ti dice.
Chiudi dietro di te la porta di casa, esci dalla vecchia palazzina rossastra in cui abiti da quando ti sei trasferito a Taranto. Pensi a quel passato indefinito, quando eri pieno di speranza per il domani, quando non ti importava di avere una bella casa perché l’unica cosa che contava era vivere felice insieme a tua moglie e al piccolo che lei portava in grembo. Sono passati già nove anni da allora. Monti sul bus grigio che ti porta in fabbrica e scambi qualche parola con un passeggero. Arrivi a destinazione e prendi la circolare interna che disloca gli operai nelle rispettive aree di lavoro. Saluti tutti e inizi la giornata.
Rifletti: lavorare in gruppo, in condizioni simili, aiuta a essere umani. Incroci lo sguardo del tuo collega e vedi i tuoi occhi, accenni ad un sorriso e lui ricambia, la tua vita è la sua vita, è la faccia positiva della medaglia. Ma poi c’è tutto il resto, e tu lo sai e gli altri lo sanno.
Non è la fatica e non è neanche il timore di eventuali incidenti sul posto di lavoro, non sono queste cose che vi tormentano. Sono le colate ardenti di metallo fuso e ciò che ne segue: ventate di gas tossico, che si scaraventano nel naso, nella laringe, nei bronchi, nei bronchioli, negli alveoli e da lì dritti nel sangue, sparati ad alta pressione in ogni punto del vostro corpo, e in quello di tutti i tarantini.
Qui l’aria è fatta di mattoni, eppure bisogna respirare per non morire, ma si muore respirando. Pensi a queste cose mentre svuoti una siviera carica di liquido incandescente e ti sembra tutto così assurdo e ti senti un carnefice, un boia che ha mandato al mattatoio centinaia di persone e continua a giustiziarne a iosa. Non ce la puoi fare. Tu non sei questo, tu non sei morte.
Scoppi in lacrime.
Allora decidi. Ti liberi dalle colpe e dal peso di una coscienza che tu senti essere sporca come il fumo nero, come questa città, come la patina rossastra che ricopre ogni cosa nello stabilimento. Tu non sei questo: non sei un mietitore.
È un attimo.
I tuoi colleghi non fanno in tempo a voltare il capo, non fanno in tempo a chiederti urlando cosa diamine stai facendo, scendi giù di lì, non fanno in tempo ad afferrare la tua gamba che si dà lo slancio oltre il parapetto, non fanno in tempo a portarsi le mani alla bocca e a strabuzzare gli occhi, allucinati, mentre il magma fervente, ebbro di vanagloria, ti divora e ti uccide, per l’ultima volta, per sempre.
Tua moglie, a casa, sveglia il bambino e gli dà il buongiorno, anche da parte tua.
Gli è stata diagnosticata la leucemia e gli hanno dato pochi mesi, se non settimane, di vita. Le cure servirebbero a ben poco, forse solo ad allungare di un tantino l’agonia, ti aveva detto il medico in quella stanza di ospedale asettica e gelida. Ma tu non potevi permetterti neanche queste cure con il tuo misero stipendio da operaio, e non potevi far nulla per lui, e proprio mentre svuotavi quella dannata siviera, sentivi che lo stavi uccidendo un po’. Non ce la potevi fare: tu non eri questo, tu non sei questo.”