Partiamo proprio da qui, da quello che abbiamo fatto, da chi abbiamo incontrato e ascoltato.
Il nostro campo estivo quest’anno è stato un campo di servizio svolto a Ventimiglia, cittadina ligure al confine con la Francia, meta di tantissimi migranti desiderosi di andare oltre confine e raggiungere parenti, amici o conoscenti che vivono in Francia, Germania o Inghilterra. Molti ci provano ogni giorno, alcuni ce la fanno mentre altri purtroppo no; non ci riescono principalmente per due motivi: in primo luogo vengono respinti dalla polizia francese che, senza pietà per nessuno e spesso a suon di botte, li butta in prigione o li mette sul primo treno di ritorno.
Quando si dice che i poliziotti francesi non hanno pietà per nessuno si intende dire che non si fanno scrupoli a picchiare un migrante senza documenti ufficiali, non esitano a far scendere dal treno donne, che possono essere anche incinte, trascinandole e tirandole per i capelli. Non si fanno problemi a rompere i cellulari dei minorenni, a strappar loro passaporti e carte d’identità, tentar di tutto pur di rimandarli qui in Italia. Non si fanno scrupoli, infine, a trattare i migranti come animali, a prendere i bambini “con le pinze” e trascinarli fuori dal treno.
In secondo luogo, c’è chi tenta la via più faticosa e pericolosa, quella a piedi: preparano i pochi averi che hanno, li caricano sulle spalle e via a tentare di superare il confine camminando sui binari, attraversando le gallerie, percorrendo i sentieri di montagna dove è facilissimo scivolare e cadere giù da un dirupo. Molti, infatti, muoiono tentando di arrivare in Francia attraversando il cosiddetto “Passo della Morte”, un sentiero di montagna che ad un certo punto si biforca e se si prende la via sbagliata si rischia la vita.
Questa è la situazione in generale al confine fra Italia e Francia.
Al servizio dei migranti
Prima di continuare a raccontare cosa abbiamo appreso e chi abbiamo conosciuto bisogna specificare i tipi di servizi che abbiamo svolto a Ventimiglia.
Dopo esserci divisi in quattro pattuglie di quattro ragazzi ciascuna, ci siamo organizzati per svolgere un diverso compito ogni mattina: otto di noi più uno o due capi andavano al Campo “Roja”, mentre altri quattro andavano alla Caritas di Ventimiglia e gli ultimi quattro più un capo andavano a fare servizio al Seminario di Bordighera.
Una o due paroline sul Campo profughi “Roja” e sulla Caritas: il campo profughi della cittadina ligure è uno dei più grandi in Italia, può accogliere fino a 500 migranti, anche se in una situazione di crisi qualche anno fa è arrivato ad ospitarne fino a 3000. Ogni migrante è registrato, ha una tessera che gli serve per uscire e rientrare al campo e per mangiare; appena arrivano viene dato loro un kit con il minimo indispensabile per lavarsi e cambiarsi. Il campo è
gestito dalla Croce Rossa Italiana e offre assistenza medica, corsi di italiano, container e tende in cui dormire, lavandini e docce, oltre al servizio mensa per colazione, pranzo e cena. Gli scout che vanno al Campo “Roja” durante l’estate svolgono principalmente questo servizio di distribuzione pasti, ma non abbiamo fatto solo quello. Diciamo che il servizio più importante e significativo che abbiamo svolto lì è stato quello di passare del tempo con questi persone giocando con loro a carte, a pallone o a “roverino” (un gioco scout che abbiamo insegnato e da subito è piaciuto quasi quanto il calcio!), ma soprattutto parlando, ascoltando le loro storie e comportandoci come se le barriere sociali create dalle differenze culturali e linguistiche non esistessero. In fin dei conti eravamo quasi tutti coetanei poiché la maggioranza delle persone accolte al campo ha tra i 18 e i 26 anni.
Gli altri due servizi che abbiamo svolto sono stati diversi per molti aspetti. Innanzitutto chi andava al seminario di Bordighera entrava in contatto con una ventina di richiedenti asilo che del seminario avevano fatto la loro casa: ognuno aveva i propri compiti giornalieri. Infatti, c’era chi andava a fare la spesa, chi cucinava, chi puliva, chi lavorava. Noi siamo andati lì più che altro per passare del tempo con loro e scambiare qualche parola. Chi, invece, andava al centro Caritas dava una mano dove c’era bisogno: al servizio distribuzione pasti, per esempio, o alle borse della spesa o ancora alla distribuzione del vestiario oppure nelle pulizie.
In questo caso, abbiamo visto il mondo del volontariato, sempre attivo.
Incontri che scaldano il cuore
Un ricordo meraviglioso di questo campo sarà sicuramente legato alle persone che abbiamo conosciuto. Persone stupende che hanno un vissuto alle spalle che è quasi impossibile immaginare, situazioni troppo dure da poter credere possano esistere. Persone come Joseph, originario dell’Etiopia molto gentile e determinato che aveva deciso di aiutarci in tutti i modi (ad esempio pulendo le tavole o i vassoi della mensa), era impossibile dissuaderlo! O come Mohamed e Fabris, il primo di 18 anni originario del Gambia mentre il secondo di 22 anni e ivoriano; il destino li ha fatti incontrare nove mesi fa, più o meno, in Sicilia e da quel momento sono diventati inseparabili.
Abbiamo conosciuto due famiglie, provenienti una dalla Siria e una dal Sudan. La famiglia siriana è composta da mamma incinta, papà e due bambine dolcissime e amatissime, Luisa e Giulia. L’altra famiglia invece è composta da madre, padre e un bambino piccolissimo, di sei mesi, di nome Leith. Ma non ci sono solo loro, ci sono anche Assan e Hasmin, dal Pakistan, Abdullai dalla Sierra Leone, Irene dalla Costa D’Avorio e tanti altri ancora.
Dopo averci parlato e trascorso interi pomeriggi insieme non è facile tornare a casa e guardare il telegiornale, leggere le notizie e ascoltare strazianti tragedie senza pensare a loro, ai loro sorrisi; senza immaginarseli là, sui barconi, a cercare di svuotare il gommone dall’acqua utilizzando una felpa, inzuppandola e poi strizzandola fuori dal mezzo; oppure già in mare, cercando un modo per non affogare, annaspando alla ricerca di un appiglio o qualcosa per sopravvivere, sentendo le grida di chi non ce la fa, di chi è disperato, di chi non sa nuotare e spera in un aiuto. È difficile immaginarseli a lavorare in fabbrica nel loro paese, quando tutto a un tratto le pareti iniziano a cadere, ci sono esplosioni ovunque, i militari entrano nella fabbrica sparando.. l’unico modo per salvarsi è fuggire, anche se feriti. È difficile immaginarseli rinchiusi nei campi di prigionia in Libia, dove ogni giorno vengono picchiati, dove bisogna lottare per avere un pezzettino di pane e un po’ d’acqua, dove vedi morire amici, fratelli, e dove vedi tua sorella o tua moglie picchiata e stuprata davanti ai tuoi occhi, mentre tu sei lì impotente con una pistola alla tempia e nel frattempo le sue grida ti lacerano il cuore. Era difficile immaginarsi scene del genere prima che qualcuno, che le ha vissute in prima persona, te le raccontasse. Tutto ciò per noi era difficile solo da pensare. Invece, ora non lo è più.
Ci sarebbero tantissime altre storie simili da raccontare, ma vogliamo raccontarvi ancora di una persona
prima di concludere. Si tratta di Delia, titolare del bar “Lo Hobbit” a Ventimiglia e ribattezzata Mamma Africa. Lei, con la sua gentilezza e bontà d’animo, ha dato assistenza ai migranti che cercavano delle informazioni, a coloro che necessitavano di un primo soccorso, che avevano bisogno di un pasto caldo dopo un lungo viaggio. Tra quelle mura i migranti potevano finalmente riposarsi per qualche ora prima di riprendere il cammino. Da tre anni nel suo bar Delia ha avuto l’occasione di assistere a momenti di infinita tristezza e amarezza come di immensa gioia: proprio lì due fratelli si sono ritrovati dopo un anno senza notizie l’uno dell’altro. Ora il bar è il punto di riferimento per le cooperative e i volontari che colgono l’occasione per bere un caffè come in un bar normale, dato che purtroppo gli abitanti di Ventimiglia ormai lo evitano a causa della costante presenza dei migranti. Sono solo i migranti gli unici clienti fissi tra coloro che necessitano di ricaricare il telefono o desiderano una bevanda calda, ma solo pochi riescono effettivamente a ripagare economicamente Mamma Africa e la sua gentilezza. È triste constatare come una donna che sta sacrificando le sue risorse e la sua attività per compiere ogni giorno un’azione moralmente e umanamente giusta riceva come risposta un isolamento dalla comunità di Ventimiglia.
Questa esperienza ci ha toccato nel profondo perché ha suscitato in noi emozioni forti: la gioia di sentirsi utili quando un gesto scontato come un sorriso può fare la differenza in un clima di sconforto generale; sentirsi impotenti nei confronti di persone che vivono in una realtà che appare lontana e quasi nascosta, quando in verità è una situazione che molti decidono di ignorare.