UNO SGUARDO OLTRE LE SBARRE. Percorso tra giustizia, riscatto e reintegrazione.

Clan Sirio, Gruppo Trento 8

La scelta del capitolo di quest’anno è ricaduta su un tema controverso: il carcere. È un argomento più che mai attuale e solo apparentemente lontano dalla nostra realtà.
Il sistema penitenziario è punizione o rieducazione? Se ne esce più consapevoli e autonomi o più smarriti di prima? Che percorsi riparativi esistono? C’è un punto di contatto tra dentro e fuori? Che ruolo giocano i nostri pregiudizi e che peso hanno?
Queste sono le domande a cui abbiamo cercato di dare risposta durante il nostro percorso.
La referente della pastorale carceraria di Trento, Anita Scoz, ci ha fornito una breve panoramica della vita nella casa circondariale di Spini di Gardolo. Nonostante molte associazioni offrano un sostegno legale, psicologico, didattico e di fornitura di beni di prima necessità, ci ha stupito come in una struttura così moderna e organizzata ci siano ancora molte criticità. Da una parte si notano passi avanti, anche grazie alla figura del garante dei detenuti, che visitando personalmente i luoghi di detenzione, monitora il rispetto dei diritti umani e riferisce in caso contrario a chi di dovere. Dall’altra parte ci sono però dati che non possono essere ignorati: solo il 31,6% dei detenuti possiede una posizione lavorativa e oltretutto, vista la carenza di risorse, la direzione è costretta ad assegnare i lavori a part-time e a rotazione, con tempi di attesa anche superiori a 4 mesi; sono solo 3 gli educatori assunti sui 6 previsti, fra i quali vi è la necessità di dividersi i compiti e dunque solo 2 sono a disposizione dei 300 detenuti. Questi ultimi sono esseri umani e cittadini, e in quanto tali, dovrebbero godere dei diritti fondamentali.
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” – così recita l’articolo 27 della nostra costituzione.
“E se le cose non stessero realmente così?” È con questa provocazione che si è aperto il nostro incontro sulla piattaforma Zoom con l’associazione “Dalla Viva Voce“.
Attraverso le storie di S. e C, due ex-detenuti, abbiamo messo alla prova i nostri giudizi e pregiudizi e riflettuto sulla possibilità di un “nuovo modo di fare carcere”, alla cui base porre giustizia riparativa, pene alternative e soprattutto il rispetto e la dignità umana. Inoltre un’insegnante presente all’incontro ci ha fatto riflettere sul valore di una cittadinanza attiva, che non lascia nessuno indietro, che sia capace di ricucire, riparare e rieducare invece che punire. Infatti per C. lo studio e l’educazione in carcere sono stati uno strumento di rinascita personale e un passepartout per il mondo esterno. Queste occasioni si sono rivelate “momento di libertà e di evasione” dalla reclusione sia fisica che morale, un’opportunità di riscatto e rinascita.
Questo nostro percorso ci ha rivelato infine l’innegabile inefficienza del sistema carcerario italiano che costituisce spesso, per chi vi entra, un circolo vizioso dal quale è difficile uscire. Questo è dovuto in parte all’idea comune che abbiamo di “carcere” come luogo in cui il reato viene anteposto alla persona. Ciò fa sì che fin dal principio l’idea del carcere non sia associata all’idea di accoglienza.
Scriviamo questa lettera per dare voce a chi non ce l’ha e raccontare la nostra esperienza.
Scriviamo non per dare risposte, ma per stimolare la riflessione, per suscitare curiosità e, perché no, anche qualche dubbio. Scriviamo per trasmettervi il turbine di emozioni contrastanti che abbiamo vissuto in questo percorso. Scriviamo per la rabbia, lo sconcerto, il senso di ingiustizia, impotenza, ma anche per dare un messaggio di speranza e vicinanza alle persone che hanno condiviso con noi le loro esperienze.